La vicenda
Domenica 8 settembre Cinzia dal Pino, imprenditrice 65enne proprietaria insieme al marito di uno stabilimento balneare a Viareggio, si è macchiata di un omicidio ai danni di un 47enne algerino, il senza-tetto Said Malkoun, colpevole di averle precedentemente scippato la borsa.
La donna, dopo il furto, si è messa alla guida del suo SUV e ha inseguito il ladro fino ad investirlo, per poi fare retromarcia e passare ripetute volte sul corpo ormai esanime dell’uomo, da cui - una volta eseguito il delitto - ha prelevato la borsa.
Per fortuna le immagini delle telecamere di sorveglianza hanno offerto uno spettacolo che, per quanto terribile, fornisce una prova incontrovertibile dell’omicidio e della sua efferatezza.
La reazione di supporto
Nonostante la brutalità dell’intera dinamica, la notizia ha spaccato in due l’opinione pubblica, aprendo un dibattito tra chi condanna fermamente l’azione della donna e chi cerca invece di trovare delle attenuanti o persino di legittimare le sue azioni.
I social sono intasati di accese discussioni su questa vicenda di cronaca: stranamente Dal pino, anche se macchiatasi di un violento e brutale omicidio, riceve moltissimo supporto, le cui radici vanno cercate nei ruoli sociali delle parti coinvolte nella vicenda e nelle caratteristiche simboliche che queste assumono agli occhi della gente.
Una fetta di popolazione vede nell’azione della donna la rivalsa di un cittadina per bene nei confronti di un delinquente, un’efficace giustizia privata che rimpiazza per forza di cose una malfunzionante giustizia istituzionale. L’imprenditrice, come molti altri italiani, sarebbe stata “esasperata” dalla troppo frequente delinquenza e dalla mancata tutela dei cittadini da parte dello stato e della polizia. D’altronde nella narrativa giornalistica - fin fatto per esempio di femminicidi e infanticidi - il concetto di esasperazione è un tòpos ricorrente.
La psicologia e la questione di classe
Ma anche volendo attenuare la gravità della vicenda, com’è possibile non provare orrore per un così brutale delitto, e anzi, reagire con approvazione o persino gioia? In realtà, non è niente di nuovo: fa parte di un processo di disumanizzazione.
Consideriamo i due profili: da un lato, un’italiana per bene, un’agiata e onesta imprenditrice. Dall’altro, un immigrato irregolare, povero, senza una casa, che ha fatto del microcrimine la sua forma di sostentamento. Per l’italiano medio di destra, conservatore post-berlusconiano, proletario di idee borghesi o piccolo-borghesi che siano, la prima è un esempio da seguire e la sua condizione socio-economica una posizione a cui ambire; il secondo invece è poco più di uno scarafaggio. Non è classificabile come essere umano con una storia, una condizione socioeconomica estremamente precaria. È uno che delinque, punto. Si fatica a empatizzare con un ladruncolo qualsiasi, perché lo si tende a vedere come un essere intrisecamente malvagio che nuoce senza scrupoli alle società onesta. Quella società formata da persone come l’imprenditrice dal Pino, nella quale molti italiani si identificano, benché la maggior parte di essi sia molto più vicina - dal punto di vista economico - a quel sottoproletariato emarginato e fecondo di delinquenza di cui faceva parte Said rispetto che alla ricca borghesia imprenditoriale. Il rapinatore è disumanizzato perché non c’è coscienza del fatto che la natura delle sue azioni antisociali sono la povertà e la marginalizzazione. Questo perché il potere, con la sua ideologia - capitalista e razzista - diffonde un odio e un disprezzo tali verso i poveri e gli emarginati, in particolare non bianchi, che rende incredibilmente ardua la possibilità di empatizzare con essi.
Questo processo fa sì che l'insieme già stratificato dei ceti subalterni si spezzetti e crei un sistema gerarchico e oppressivo al suo interno: Il proletariato diventa incosciente, piccolo-borghese e reazionario. Si china a qualsiasi tipo di più o meno subdola violenza sistemica, afferra i forconi dinanzi ai rigurgiti criminosi del sottoproletariato, anche se questi rigurgiti intaccano il quieto vivere di un qualche signorotto benpensante. L’ideologia borghese - come ogni altra ideologia di potere e mantenimento dello status quo - combatte tramite lobotomie collettive qualsiasi rimasuglio di coscienza sociale e di lotta contro l’oppressione.
Un punto di vista diverso
Tra le due interpretazioni dominanti, ossia quella reazionaria e piccolo-borghese e quella lucida e moderata, ce n’è una terza, che è quella ruvida e radicale chi vede un problema nel sistema stesso, condannando in quanto oppressiva ogni autorità e legittimando ogni tentativo dell’individuo di opporsi ad essa. Said è un povero. Un nullatenente, un senzatetto e un immigrato. Non vive nella società, non ha una casa, un lavoro, un punto di riferimento fisso. È un ladro, un parcheggiatore abusivo: insomma è un accattone di pasoliniana memoria, un fannullone di deandreiana memoria. Non è parte della cosiddetta “working class”, è un gradino sotto. Said fa parte di quelli che si arrangiano da soli, rifiutando il lavoro sfruttato imposto dal moralismo borghese e il rispetto reverenziale verso le leggi dello stato. I proletari lo schifano, perché imborghesiti e benpensanti.
Una sera di fine estate Said adocchia una signora con una bella borsa, una ricca imprenditrice, membro di un'elite capitalista, quella dei balneari, che sopravvive grazie solo ai favoritismi dello stato, e che usurpa alla collettività un bene naturale e intrisecamente pubblico assegnandolo in concessione a dei padroni che lo privatizzano, redendolo così un privilegio.
Said approfitta della sua superiorità fisica per avventarsi sulla signora e strapparle di mano la borsa, poi scappa da bravo ladro. E con questo gesto tutti gli sfruttati, i deprivati, la classe subalterna in genere, ottengono un pizzico di rivalsa. Giustizia è fatta se un padrone viene espropriato da un povero contro la sua volontà. Perché il padrone non ha alcun diritto di continuare ad esserlo, mentre le azioni di anticonformismo dei delinquenti sottoproletari possono anche essere illegali, ma finché questo sistema di potere persiste, avranno sempre un fondo di legittimità.
Ma la storia non finisce qua. La padrona non può accettare questo esproprio, poiché esso mette in discussione il suo status di privilegiata, restituendole un po’ di violenza. Questo furto è uno smacco alla sua dignità. Allora si decide, prende il suv – altro mezzo di rappresentazione del suo status – come un industriale chiama la polizia o in tempo di fascismo le squadracce per lo sgombero, e massacra il suo nemico. E il massacro è brutale, esemplare.
Questa vicenda parla di ingiustizia, di un sistema marcio, di potere economico e di razzismo. Allo stesso tempo di ribellione, di rifiuto delle imposizioni del potere. Perché non si tratta solo di un omicidio orrendo, ma anche di un episodio di guerra sociale.